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Di Sergio Ciannella

L’Europa segue ha seguito con apprensione il conflitto tra il governo nazionale spagnolo di Madrid e quello autonomo di Barcellona che si è radicalizzato senza possibili mediazioni in conseguenza della dichiarazione d’indipendenza pronunciata dal Parlamento Catalano il 27 ottobre.

La ferma risposta del primo ministro Rajoy, approvata dall’Assemblea parlamentare, è l’applicazione della norma costituzionale che prevede la destituzione del governo locale, il commissariamento della Regione e nuove elezioni. Allo stato non è dato prevedere quali potranno essere gli sviluppi della crisi, si può solo paventare una degenerazione del conflitto qualora gli indipendentisti catalani non arrestassero la loro corsa verso la secessione.

Questa vicenda, che può essere riportata alla spinta separatista che attualmente si va affermando in diversi Paesi come fenomeno diffuso d’insofferenza verso i poteri centrali incapaci di dare risposta adeguata alle istanze locali, impone una riflessione sulla crisi del patto sociale alla base della formazione degli Stati, resa manifesta dal progressivo allontanamento dei cittadini dalla politica e dalle istituzioni.

Per scoprire le ragioni di questa tendenza occorre risalire alle origini del contratto sociale e, seguendone il percorso, cercare di capire cosa è cambiato nei secoli e cosa c’è da aspettarsi nel futuro prossimo. Ogni aggregazione umana su base volontaria si regge sulla condivisione delle ragioni giustificatrici dello stare uniti in una comune appartenenza e sull’accettazione di regole interne che comporti limiti alla libertà individuale.

L’interesse a far parte di un gruppo si configura infatti come bene giuridicamente apprezzabile cui corrisponde l’obbligo di rispettare delle regole e di assumere dei doveri.

Se questo principio è la costante di ogni tipo di aggregazione volontaria e ne fornisce adeguata giustificazione, analogo fondamento non è dato ritrovare quando l’appartenenza non è frutto di libera scelta, ma dipende unicamente dal fattore della nascita. Quando un essere umano viene ad esistenza, indipendentemente dalla sua volontà entra a far parte di una comunità familiare e di una organizzazione sociale verso le quali assume automaticamente doveri precostituiti e non negoziabili. Ciò pone un problema di legittimazione del potere di imporre regole e di limitare la libertà individuale.

Nella famiglia tale potere nasce dal diritto/dovere di educare i figli esercitando la patria potestà, nella società di appartenenza viene conferito dagli stessi membri della collettività ad organi rappresentativi scelti con metodo elettorale. La ricerca del fondamento che legittima il governo di questo organismo, che in epoca moderna coincide con l’idea di Stato, si è resa necessaria quando il potere ha perduto il carattere sacrale delle origini, in conseguenza della nuova visione laica dei rapporti umani elaborata nel Secolo dei Lumi.

L’Impero Romano, mutuando dall’Egitto dei Faraoni, aveva riconosciuto all’imperatore attributi divini che lo consacravano in maniera indiscussa capo del suo popolo. Alla fine di questo ciclo storico, Costantino aveva saldato un legame indissolubile tra Corona e la nuova religione di un solo Dio, il Cristianesimo, riconoscendole il potere di crismare il monarca, detentore del potere temporale. Questo patto finiva per codificare l’ingerenza della Chiesa negli affari di governo, con diritto di legittimarlo attraverso la forma sacrale della investitura.

Nel Medioevo il monarca trasferiva a cascata questo potere alle gerarchie nobiliari minori, ma la matrice era sempre sacrale, come sta a dimostrare la presenza costante nelle corti dell’autorità ecclesiastica e la sua pretesa di sovrapporsi alla sovranità. In epoca rinascimentale si comincia a dubitare di questa influenza divina, non indispensabile al raggiungimento di alte realizzazioni in ambito artistico e scientifico, nonché in quello politico, dove la forza e l’intelligenza erano requisiti sufficienti per impadronirsi del potere. Sul piano ideologico la definitiva smitizzazione dell’origine sacrale delle monarchie è il portato delle idee illuministiche, che a fronte di superate elaborazioni metafisiche, rivalutavano le potenzialità umane e la fiducia nel progresso fondato sulla conoscenza e sulla perfettibilità dell’individuo. Venuta meno la giustificazione del potere su fattori che trascendevano la volontà umana, occorreva stabilire cosa legittima in un aggregato sociale l’imposizione di regole e su cosa si fonda l’obbligo di accettarle.

Le possibili soluzioni sono tuttora incentrate sulla teoria del patto sociale, per la prima volta accennata da Hobbes e in seguito ripresa da Locke: il potere dello Stato risiede nell’accordo tra i soggetti che lo istituiscono ed è quindi il loro consenso che permette di esercitarlo. Si ripropone così una forma di scambio di una parte di libertà dei consociati, limitata dalla leggi, con il vantaggio di protezione e benessere che può garantire lo Stato. Il difetto di questa costruzione teorica, già denunciato da Rousseau nel “Contratto sociale” e non ancora superato da convincenti argomentazioni, sta nell’accettazione come bene comune di qualsiasi patto, anche se in contrasto con valori universalmente riconosciuti come fondamentali. Il consenso infatti non è espressione unanime di tutti i cittadini, ma di una parte maggioritaria, imposta secondo gli schemi della democrazia che non sono peraltro in grado di evitare che la “passione”, come definisce Simon Weil quella forza irragionevole delle masse, prevalga sulla ragione e provochi conseguenze nefaste, come quelle verificatesi nelle tragedie mondiali del XX Secolo. Il dibattito che ha impegnato filosofi di grande calibro come Max Weber, Carl Schmitt, Otto Kircheimer, Nicolas Lubman, non è riuscito a superare la divaricazione tra legalità e legittimità, diritto e giustizia. In altri termini, l’autorità formale della legge privata di un supporto valoriale, non è in grado di risolvere il problema di fondo, ovvero il riconoscimento della legittimità di un sistema di governo, visto che non è sufficiente riferirsi alla mera legalità per considerarlo conforme ad un modello universalmente accettabile.

D’altra parte la stessa possibilità di discriminare tra le varie forme di governo quelle ritenute illegittime, pone un grave interrogativo su chi e con quali strumenti sia in grado di giudicare e principalmente quali siano i requisiti di conformità della norma ad un principio di giustizia sostanziale, tale da conferire indiscussa autorità al potere.

La questione resta aperta e irrisolta, le soluzioni di compromesso affidate alla buona volontà dei popoli e al grado di civiltà che si misura in termini di tolleranza e solidarietà umana.